CINEMA E TV

Hereafter di Clint Eastwood: il “qui” e il “dopo”, filmati con garbo

19/01/2012

Dalla sua uscita, circa Hereafter di Clint Eastwood, sono state pubblicate numerose critiche entusiastiche. Intere paginate di giornale per incensare questo film che – a detta dei più – ci fa riflettere su chi siamo, su dove andremo, sulla spiritualità, sul senso dell’esistenza. Le proverbiali “grandi domande”, insomma!

Ebbene, è vero: Hereafter è un film dalle notevoli ambizioni. Ed è, diciamolo subito, un buon film, anche perché da Eastwood è difficile che arrivi qualcosa di cattivo. Sì, Invictus (2009) è per certi aspetti deludente, troppo agiografico, e infatti se ne è parlato un po’ meno rispetto ad altre opere. Ma che Eastwood, dall’alto della sua esperienza e disponendo ormai di uno stile consolidato, asciutto come nessun altro e narrativamente solidissimo, proponga cattivo cinema, è cosa francamente da escludere.

Che film è, dunque, Hereafter? Né capolavoro né bluff, è il film di un regista ormai più che maturo, che può permettersi di scomodare grandi temi e di sollevare domande di enorme portata sulla Vita e sulla Morte, senza doversi abbassare ad adottare uno stile barocco e sovraesposto (tanti gli esempi che si potrebbero fare, dall’inguardabile Al di là dei sogni [Ward, 1998] al prolisso Vi presento Joe Black [Brest, 1998], a dimostrazione che simili tematiche non sono mai facili da affrontare. Nota di merito, però, allo scorsesiano Al di là della vita [1999], gioiello da non dimenticare!).

In fondo, però, già l’Eastwood di Mystic River (2003) e Million Dollar Baby (2004) affrontava interrogativi colossali sull’Uomo e sulla Vita. In Hereafter, il regista si misura con una forma di narrazione quasi altmaniana, a storie incrociate: la vicenda di una giornalista francese scampata ad uno tsunami nel Pacifico e di un bambino che ha perso il fratello gemello si saldano con quella di un ex-veggente (Matt Damon) che non riesce a convivere col “dono” di vedere l’aldilà delle persone, e cerca solo una vita normale. Secondo il suo stile piano e disteso, nitido, Eastwood incrocia le tre vicende costruendo una narrazione accurata, procedendo per grandi blocchi, che apparentemente non avvicinano i personaggi fino al finale che li riunisce a Londra.

A saldare le tre vicende è ancora una volta, come sempre nello stile sobrio di Eastwood, il non detto, l’accennato, il suggerito; ovvero, il mistero fondamentalmente non indagabile di quell’esperienza, la morte, che ci attende tutti, e della fatale casualità con la quale essa si presenta.

La grande tematica, eterna e comune a letteratura, filosofia, matematica, fisica, cinema e chi più ne ha più ne metta, è la ricerca di un senso, vero motore concettuale dell’essere umano.

Eastwood è bravissimo a porre domande senza fabbricare facili risposte, è magistrale nel mostrare come la morte riguardi non solo chi se ne va, ma anche chi resta, e deve confrontarsi con la perdita e con il senso di vuoto ad essa conseguente; peccato solo per quella sciagurata idea di dare corpo (visivo) all’arte divinatoria del veggente Damon, con dei flashback deludenti e banalizzanti che non aggiungono nulla alla profondità della trattazione e – ancora una volta – alla leggerezza del tocco.   

 

Matteo Fontana

(da "La lanterna di Born" n.7 - gennaio 2012)

 

 
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